Teatro Morlacchi, ore 21: la platea è ormai esaurita, pochi i posti rimasti tra palchi e loggione; la splendida cornice settecentesca accoglie l'attesissima ultima serata della IV edizione del festival del giornalismo. Protagonisti sono Eugenio Scalfari, a cui la sala tributa un lungo applauso, Giuseppe Tornatore, e Walter Veltroni. A moderare, Michele Serra. Lo spunto da cui nasce l'idea di questo incontro è un editoriale di Scalfari del settembre 2009 “La memoria del passato e la speranza del futuro”.
L'incipit della discussione è quasi dovuto; si parla di storia e di passato come base del futuro, come non sollevare il problema della memoria condivisa proprio oggi che è il 25 aprile? Le parole passano a descrivere allora qual è il corretto approccio verso il ricordo della liberazione dal nazifascismo; Scalfari ritiene giusta la richiesta di riconoscere finalmente l'esistenza dei ragazzi di Salò e di ricomprenderli nell'arco della memoria collettiva della patria, perché è ormai giunto il momento di superarne la cancellazione dalla storia – operata giustamente dalla costruenda repubblica per darsi un racconto egemonico della Resistenza su cui basare la propria fondazione – ma ad una condizione: “che non si smarriscano i valori decisivi, quelli della democrazia e dell'antifascismo”. Veltroni, dal canto suo, mette in guardia dai pericoli della ricerca di una “memoria condivisa”: essa non può diventare una gigantesca coltre che copra tutte le colpe per creare un magma indistinto in cui si perda di vista le responsabilità della storia.
Ma quanto il passato può essere la base delle speranze per il futuro? Il fulcro dell'incontro viene racchiuso da questa domanda, e la risposta più suggestiva e densa di riflessioni sta nel quadro tratteggiato da Scalfari: il rifiuto di ricezione dei valori del passato è il segno del passaggio da un'epoca vecchia ad una nuova. Ecco le invasioni barbariche: i nuovi barbari non sono un'orda di teppaglia indistinta di “Unni al galoppo”; barbari intesi come “diversi”, nella accezione greca originaria del termine, Scalfari li chiama i “contemporanei”, che mettono fine all'epoca della modernità, contraddistinta da valori in cui la ragione era un elemento fondamentale che servisse da filtro alla passionalità e alla istintualità. I “contemporanei” sono coloro che vivono nel presente, non solo nel presente di oggi, ma nella sua accezione di “unico tempo verbale esistenziale”. Il futuro cessa di essere una speranza, e diventa una minaccia – gli fa sponda Veltroni – e questa caratteristica connota la relazione del sé con gli altri: non più apertura, ma ricerca di antri angusti in cui ritrovare la propria identità. Non si tratta di un fenomeno italiano, ma europeo; lo stesso descritto nel libro del francese Dominique Moisi sulla geopolitica delle emozioni: mentre l'Asia sarebbe la sede della speranza e il mondo islamico della frustrazione, l'Europa sarebbe percorsa dalla paura.
I nuovi barbari, che affondano nella palude perché partono da zero, dovranno costruire nuovi valori, un tipo nuovo di civiltà, di trasmissione e di scambio; e probabilmente occorre ricercare nuovi codici di narrazione del passato, sollecita Tornatore, per far comprendere alle nuove generazioni che ciò che oggi è “normale” è frutto della conquista del passato, e che così come è stato conquistato si può anche perdere: per questo in Baaria fa pronunciare a un personaggio chiave del film delle parole che dopo cinquant'anni sanno di eresia:“la politica è bella”. La politica dei Pajetta e dei Berlinguer, evocata dall'anticomunista Scalfari, con le loro lampadine appese al soffitto senza paralume, che vivevano insieme alla loro gente, che versavano parte del loro stipendio di parlamentari al partito, che rischiavano la vita in mezzo ai braccianti sotto i colpi di fucile del bandito Giuliano, sembra non esistere più; eppure deve tornare ad essere propositiva, a far parte della società e uscire dalla sua condizione di “Casta” che sparge sentimenti corporativi e bottegari, fatta di mestieranti per cui “qualsiasi consigliere, fosse pure di circoscrizione, rappresenta un piccolo padrone”. Deve tornare a farsi riconoscere, a farsi tessuto sociale, a stare accanto ai “nuovi barbari”: perché l'educazione è un fatto collettivo, cresce dentro a una comunità che insieme all'individuo si sviluppa educandosi reciprocamente, nello scambio. Si spengono le luci sul teatro Morlacchi e sulla IV edizione del festival del giornalismo, ma forse qualche fioco lumicino dopo questa discussione continuerà a rimanere acceso.
Patrizia Cantelmo
martedì 27 aprile 2010
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