martedì 27 aprile 2010
Scalfari, la fine di un'epoca e i nuovi barbari
L'incipit della discussione è quasi dovuto; si parla di storia e di passato come base del futuro, come non sollevare il problema della memoria condivisa proprio oggi che è il 25 aprile? Le parole passano a descrivere allora qual è il corretto approccio verso il ricordo della liberazione dal nazifascismo; Scalfari ritiene giusta la richiesta di riconoscere finalmente l'esistenza dei ragazzi di Salò e di ricomprenderli nell'arco della memoria collettiva della patria, perché è ormai giunto il momento di superarne la cancellazione dalla storia – operata giustamente dalla costruenda repubblica per darsi un racconto egemonico della Resistenza su cui basare la propria fondazione – ma ad una condizione: “che non si smarriscano i valori decisivi, quelli della democrazia e dell'antifascismo”. Veltroni, dal canto suo, mette in guardia dai pericoli della ricerca di una “memoria condivisa”: essa non può diventare una gigantesca coltre che copra tutte le colpe per creare un magma indistinto in cui si perda di vista le responsabilità della storia.
Ma quanto il passato può essere la base delle speranze per il futuro? Il fulcro dell'incontro viene racchiuso da questa domanda, e la risposta più suggestiva e densa di riflessioni sta nel quadro tratteggiato da Scalfari: il rifiuto di ricezione dei valori del passato è il segno del passaggio da un'epoca vecchia ad una nuova. Ecco le invasioni barbariche: i nuovi barbari non sono un'orda di teppaglia indistinta di “Unni al galoppo”; barbari intesi come “diversi”, nella accezione greca originaria del termine, Scalfari li chiama i “contemporanei”, che mettono fine all'epoca della modernità, contraddistinta da valori in cui la ragione era un elemento fondamentale che servisse da filtro alla passionalità e alla istintualità. I “contemporanei” sono coloro che vivono nel presente, non solo nel presente di oggi, ma nella sua accezione di “unico tempo verbale esistenziale”. Il futuro cessa di essere una speranza, e diventa una minaccia – gli fa sponda Veltroni – e questa caratteristica connota la relazione del sé con gli altri: non più apertura, ma ricerca di antri angusti in cui ritrovare la propria identità. Non si tratta di un fenomeno italiano, ma europeo; lo stesso descritto nel libro del francese Dominique Moisi sulla geopolitica delle emozioni: mentre l'Asia sarebbe la sede della speranza e il mondo islamico della frustrazione, l'Europa sarebbe percorsa dalla paura.
I nuovi barbari, che affondano nella palude perché partono da zero, dovranno costruire nuovi valori, un tipo nuovo di civiltà, di trasmissione e di scambio; e probabilmente occorre ricercare nuovi codici di narrazione del passato, sollecita Tornatore, per far comprendere alle nuove generazioni che ciò che oggi è “normale” è frutto della conquista del passato, e che così come è stato conquistato si può anche perdere: per questo in Baaria fa pronunciare a un personaggio chiave del film delle parole che dopo cinquant'anni sanno di eresia:“la politica è bella”. La politica dei Pajetta e dei Berlinguer, evocata dall'anticomunista Scalfari, con le loro lampadine appese al soffitto senza paralume, che vivevano insieme alla loro gente, che versavano parte del loro stipendio di parlamentari al partito, che rischiavano la vita in mezzo ai braccianti sotto i colpi di fucile del bandito Giuliano, sembra non esistere più; eppure deve tornare ad essere propositiva, a far parte della società e uscire dalla sua condizione di “Casta” che sparge sentimenti corporativi e bottegari, fatta di mestieranti per cui “qualsiasi consigliere, fosse pure di circoscrizione, rappresenta un piccolo padrone”. Deve tornare a farsi riconoscere, a farsi tessuto sociale, a stare accanto ai “nuovi barbari”: perché l'educazione è un fatto collettivo, cresce dentro a una comunità che insieme all'individuo si sviluppa educandosi reciprocamente, nello scambio. Si spengono le luci sul teatro Morlacchi e sulla IV edizione del festival del giornalismo, ma forse qualche fioco lumicino dopo questa discussione continuerà a rimanere acceso.
Patrizia Cantelmo
domenica 25 aprile 2010
Un’informazione indipendente è possibile: Al Gore e Saviano ci provano
Grazie al canale di Current e a Sky ho potuto assistere ad una serata in diretta, come se fossi stata lì, in cui s’incontravano un premio Nobel Al Gore e lo scrittore e giornalista più giovane,più affermato e dunque più coraggioso Roberto Saviano e, di questi tempi non è poco. L’incontro era mediato dalla giornalista Maria Latella,la quale ha confidato al folto pubblico del Teatro Morlacchi e a quello assiepato fuori che anche per lei era un momento importante, nonostante la sua lunga carriera. La serata è iniziata con un video su Saviano e subito dopo con un suo intervento che, in maniera semplice e tranquilla e senza nessuna ostensione da personaggio pubblico spiegava quali fossero le difficoltà, di chi ha avuto la possibilità di raccontare storie vere, quanto fosse complicato divulgarle,visto che la potenza delle parole e la sua influenza sulle coscienze di inconsapevoli cittadini, potesse invitarli alla riflessione e quindi al chiedersi il perché di un certo sistema. Questo lo si è potuto ottenere soltanto portando alla luce fatti e storie di scrittori ed intellettuali che come lui hanno sentito questa necessità di raccontare la verità, anche se per questo il prezzo da pagare è stato alto, visto che le parole quando toccano certi poteri ed arrivano a molte persone diventano assai pericolose e,il rischio è che a difenderle debba essere il sangue ed il corpo di chi si è piccato di tanta audacia.
Hanno fatto diversi riferimenti al premier Silvio Berlusconi ed al suo governo. Saviano ha avvisato il premier con le parole di Giovanni Falcone, ricordate in un emozionante video da Paolo Borsellino: «La gente fa il tifo per noi». Ha ricevuto più applausi di quanti ne ha ricevuti Al Gore. E poi ha rivelato: «Tutto ciò mi toglie il fiato. E’ difficile trovarsi dal buio alla luce del teatro. Un’occasione rara perché qui si può discutere di temi che altrove non è facile trattare. L’incontro internazionale con Al Gore è un privilegio raro. Poi vedere negli occhi altri giovani e condividere con loro i miei pensieri è un privilegio unico». Saviano grattandosi la testa ha aggiunto: «Scrivere di mafia o morire di mafia mica è un modo per andare nel pantheon degli eroi. Dopo essere stati uccisi si viene diffamati. Pippo Fava venne accusato di pederastia. Don Diana di camorra. Giancarlo Siani di aver relazioni con la moglie di un pentito. Quando scrissi il mio libro il centrosinistra al governo in Campania diceva che rovinavo la regione, ora succede il contrario».
Per lo scrittore «la lotta alla mafia ha un senso se è movimento culturale di tutti. Le organizzazioni mafiose non vanno decapitate, ma sradicate perché se no la testa ricresce. E’ doloroso che quando c’è un incendio la colpa venga data a chi dà l’allarme e non a chi appicca il fuoco. Ed è difficile vivere quando tutti parlano di te. Però bisogna parlare con tutti, farsi capire, non far passare l’antimafia come battaglia ideologica. E considerare che un voto non pregiudica una persona. La legalità in questo senso ci dà il privilegio di unire. Per cui è utile l’incontro con Al Gore, intellettuale della tv libera Current: più parliamo al mondo e più ci difendiamo».
Saviano si è scagliato poi contro il voto di scambio: «Non è possibile che non se ne parli mai: 25 euro per mettere nell’urna una scheda già votata in Campania. La gente accetta questo perché non aspetta più nulla dalle istituzioni. Bisogna riprendersi parole come amico e uomo d’onore. La verità fa onore a un paese. Si sa quello che dobbiamo fare. A volte si pensa di sbagliare, ma invece bisogna tuffarsi e riscoprire quello che in realtà sappiamo già».
Poi è stata la volta dell’ex vicepresidente degli Stati Uniti, in versione pubblicitaria della sua Current tv: «Il giornalismo deve cambiare. Il modello di business attuale è arretrato. Si perdono soldi. Inoltre, il giornalismo professionale è diventato business delle notizie e si è mischiato con l’intrattenimento perdendo autorevolezza. Il modello di business attuale sta fallendo e non ce n’è ancora uno per supportare il giornalismo investigativo su internet come si deve. Per il futuro connettere il dinamismo di internet alla tv può essere un’idea per Current. Non sono cittadino italiano e dunque sceglierò le parole da dire: troppi giornalisti qui sono compromessi col sistema del business delle notizie. Michele Santoro è uno bravo e non capisco perché programmi come il suo non possano andare in onda sotto elezioni. Anche per questo gli abbiamo offerto di mandare il suo programma su Current tv. E ricordo Enzo Biagi, il cui spirito vorrei continuasse a vivere nel nostro canale. Se un giornalista ha una storia la porti da noi e gliela mettiamo in onda. In un paese in cui media e governo sono così intimamente connessi noi puntiamo sul giornalismo investigativo». Quindi Al Gore ha bacchettato precisamente il governo: «Non ho condiviso quando si è penalizzato fiscalmente Sky e non altri media. Poi il governo ha aumentato la pubblicità su Mediaset e l’ha diminuita altrove. Il futuro della democrazia dipende dalla resurrezione del giornalismo e di un suo modello di business. Io credo nel futuro e credo nel domani della democrazia italiana».
Dopo i loro discorsi i due hanno risposto ad alcune domande di Maria Latella. Così viene fuori che secondo Al Gore «La tv è la più grande influenza sulle opinioni politiche, certo nel mio paese e certo in Italia. E per alcuni anni continuerà così. Anche se il cambiamento sta arrivando. La campagna elettorale di Obama è stato un segnale». Alla domanda se Saviano possa diventare leader del Pd come suggerito in una copertina de L’espresso lo scrittore ha risposto: «Non credo di saper fare il candidato del Pd. La politica ha perso fascino e autorevolezza». Poi ha aggiunto: «Il giornalismo deve smettere di riferire le dichiarazioni dei politici e occuparsi più di storie. Pensate cosa succederebbe se la Repubblica, il Corriere e La Stampa trasferissero per un anno le loro redazioni a Napoli, Palermo e Bari: avremmo un racconto capovolto del paese».
Sulla sua candidatura è intervenuto scherzosamente Al Gore: «Io ho lavorato come giornalista per sette anni prima di entrare in politica, dunque anche tu puoi cambiare mestiere». Infine Saviano: «Possiamo dire che siamo determinati dalle tv, che siamo schiacciati dal consenso mediatico, però c’è qualcos’altro. Non abbiamo speranza che il nostro impegno possa essere davvero utile a cambiare le cose. Ma questo va vinto». Ed inoltre ha citato Corrado Alvaro, scrittore già amato da Enzo Biagi: «La disperazione più grande per un paese è credere che vivere onestamente sia inutile»
E, nell’inedita strategia mediatica di sopravvivenza che lo scrittore di Gomorra ha sostenuto, prossimo passo potrebbe essere una sua collaborazione come commentatore di notizie sull’emittente: «È un incredibile narratore dei fatti», ha incalzato Al Gore ed ha dimostrato di possedere una notevole conoscenza della nostra tv quando ha detto che vorrebbe una Current «nello stile di Enzo Biagi», con giornalisti «come Santoro e Gabanelli» e ha precisato con finta maraviglia la guerra che, via governo, Mediaset ha mosso a Sky coi tagli alla pubblicità e l’aumento dell’Iva.
Stefania Vietri
Giornalismo e politica
E i giornali: quelli "polarizzati" (ancora parole di Cazzullo), che confortano il lettore, reggono; gli omnibus, tra cui il suo, faticano. La colpa? Non certo dei lettori, chiude il giornalista del Corriere. E la radio? La parola passa a Giuseppe Cruciani, che approfitta della situazione radiofonica, particolare rispetto a quella della carta stampata, per sottolineare l'importanza della distanza dal politico e dalla politica, tanto fisica che morale. "Soffro quando ho qualcuno accanto, mi mette in soggezione e non riesco ad essere cattivo". Mai, sottolinea Cruciani, e poi mai va data la benché minima impressione di schieramento. Inoltre - e qui il conduttore si lascia andare - il materiale fornito quotidianamente dalla politica è spettacolo continuo, un grand guignol sempre ricco di ridicolaggini, aiutato anche dalla sovraesposizione mediatica di alcuni politici, che, magari, dovrebbero dedicare qualche ora al giorno anche al lavoro (e qui fa l'esempio di La Russa, in televisione dal primo mattino fino alla sera).
Arriva l'argomento Rai, probema principale per Cazzullo dell'invadenza della politica. Il gioco delle lobby è il tarlo da estirpare, fatte salve le tante professionalità al suo interno. Il presidente del consiglio, nello specifico, è anche il primo editore italiano, ricorda il giornalista del Corriere, e, senza scoraggiare i giovani aspiranti giornalisti, rimane una giagantesca anomalia nazionale. Berlusconi può cambiare con poco la vita di una persona, nel bene e nel male.
Arriva Alessandro Campi in sala, che Mellone saluta simpaticamente e la parola passa a Cruciani che, in merito al premier e agli spazi di libertà, manifesta una qualche stanchezza a riguardo. Il conflitto di interessi è ormai uno stato di fatto di cui prendere coscienza e andare avanti. Potrebbe, aggiunge, non essere la priorità per molti italiani. L'occasione è ghiotta: parte l'esilarante racconto di una puntata della sua trasmissione il cui tema era "Sesso e politica" in cui Rocco Siffredi ha cominciato a parlare inaspettatamente del "sesso di Berlusconi e delle sue dimensioni" con insistenza e, apparentemente, a ragion veduta. Fioccano le chiamate e i messaggi a Cruciani, tra cui, ovviamente la direzione e la presidenza dell'emittente che, soprendentemente, dichiara di essersi trovata in difficoltà non per l'argomento ("voliamo alto", butta lì Cazzullo durante il racconto) ma per non aver saputo chi fosse Rocco Siffredi. La platea applaude divertita.
Il giornalista radiofonico, dice Mellone, ha un'audience forte ed influente di cui, continua Cruciani, la politica non si è (del tutto) accorta; un esempio fra tutti, la prima intervista Zapatero, dopo l'elezione, la fece alla radio. E' una questione anche di linguaggio, conviene Mellone, che si rivolge di nuovo a Cazzullo riprendendo la sua definizione di giornali polarizzati e omnibus. Il giornalista ne approfitta per dire qualcosa che non aveva finora avuto occasione di dire: "qualsiasi elezione in Italia è una partita truccata finché il presidente del consiglio è il principale editore italiano". Un grosso applauso accompagna la forte affermazione che viene poi completata dal giornalista del Corriere : questo fatto non risolve il conflitto degli interessi, anche se Berlusconi ha pieno diritto di governare. Conflitto che, pur non rappresentando, forse, spunto di interesse per molti italiani, rimane un problema innegabile.
Per quanto riguarda i giornalisti, il problema è saper criticare. Se la critica è accompagnata da un insulto, non è più critica. Il divismo è segno che il controllo sfugge di mano. Cruciani smorza la polemica, dicendo che questo fa parte un pò del gioco. Cosa pensa, per esempio, gli chiede Mellone, del giornalismo di Feltri? Gli piace?
Cruciani annuisce. Vittorio Feltri, secondo lui, non sposta consensi. Il suo è un giornale che cerca come tutti il proprio elettorato. Il direttore è un animale che fiuta, né più e né meno, deve anche lui vendere copie e lo fa a modo suo. Non rappresenta, certo, un problema nel panorama della stampa italiana. Così come Berlusconi, riprende Cazzullo, vince con le televisioni, intercetta gli interessi degli italiani. Non va affidato, però, al giornalismo il compito di far fare carriera al presidente del consiglio (altro applauso).
Il declino del berlusconismo , continua Cazzullo, è cominciato non col caso Noemi, ma giovedì scorso. Quando il federalismo fiscale presenterà il conto al Sud, un partito della nazione che possa rappresentare non solo una istanza culturale, ma anche un interesse, sarà necessario. Quest'ultima affermazione, ovviamente, scalda la platea, solo scarsamente diminuita nonostante sia quasi ora di pranzo. E' un momento molto difficile per il giornalismo, che manda in pensione professionisti non ancora sessantenni e cioè, nel pieno della loro maturità espressiva e di esperienza.
Il futuro è positivo, secondo Cazzullo, comunque. Sostenendo la neutralità, per quanto possibile, del suo giornale, vede la necessità di redazioni giovani, che parlino della loro generazione. Su questa affermazione la generazione seduta al tavolo e quelle in platea concordano.
Lucia Settequattrini
sabato 24 aprile 2010
Media e potere: l'avventura delle 10 domande, ovvero l'incontro appassionato con (il giornalismo di) Ezio Mauro
Io stessa ho faticato a trovare un posto per sedermi, quando, ormai senza nulla da perdere, mi rifugio nell'ultimo palchetto libero che però si trovava proprio sopra il palcoscenico. Mi siedo, soddisfatta. Dopo qualche minuto, una sconosciuta entra e mi chiede se il posto vicino al mio fosse libero. Annuisco.
Prima di guadagnare l'agognata postazione, mi imbatto in Arianna Ciccone, che vagava felice ed attiva come elfo nei boschi e interrogava con lo sguardo chiunque. La rassicuro dicendo che, nonostante il cambio di orario dell'incontro, ero certa che la maggioranza del pubblico non si era sbagliata: a quell'ora da programma era stato previsto, inizialmente, Oliviero Toscani col suo workshop fotografico, slittato alle 18, ora in cui, appunto, Ezio Mauro sarebbe stato intervistato da Angelo Agostini.
Neanch'io mi sbagliavo: eravamo (quasi) tutti lì per Ezio Mauro, accolto dal primo di una lunga serie di applausi.
A quasi un anno dalle fatidiche dieci domande rivolte a Silvio Berlusconi, Ezio Mauro arriva al Festival Internazionale del Giornalismo quest'anno con la volontà di far riflettere il paese sulla reazione-non reazione del premier.
C'è da riflettere, insiste il direttore de la Repubblica, su due fatti: il presidente del Consiglio avrebbe dovuto rispondere in primis come cittadino e lo scalpore suscitato da questo "lavoro di inchiesta".
Le risposte alle dieci domande hanno tardato a venire e una volta arrivate erano incomplete. Di per sé questo atteggiamento è una risposta. L'undicesima. O forse la prima.
Questa "battaglia giornalistica", perché tale ha finito per apparire, continua appassionatamente Mauro, si inserisce altresì in un quadro assolutamente normale in altri paesi liberi, prassi in uso al "libero giornalismo nelle democrazie occidentali". E' stato "solo giornalismo", come scrisse Le Monde.
Mauro ricorda un illustre antecedente: la domanda posta da Bobbio nel 1994 su La Stampa a Berlusconi allora capo di un partito nascente dalla forma nuova. Qual'è lo statuto di questo partito se l'articolo 91 della costituzione recita che i partiti concorrono a determinare la politica nazionale con metodo democratico? Qual'era il metodo democratico di Forza Italia, visto che non c'era uno statuto nel partito ? Il grande filosofo della politica ottenne attacchi ed imbarazzo. "Il diritto di fare domande" fu l'articolo che ne seguì.
Mauro invita ancora a riflettere sulla pigrizia intellettuale a latere delle dieci domande: se si intepreta correttamente il proprio lavoro e lo si fa con passione gratuita, sia esso il giornalismo o la politica, si riconoscono i primati del proprio lavoro. Ma un paese che ha paura di un giornale, delle sue idee, che si disconnette "dall'unica riserva democratica", fa pensare. Un giornale è solo carta e inchiostro, ma forse c'è qualche idea. E qui scatta un applauso. Appassionato anche questo.
E' stato il giornalismo a dettare un obbligo, insiste Mauro, un giornalismo investigativo e un lavoro di inchiesta, portato avanti da Giuseppe D'Avanzo, presente in sala ma non sul palco, che Agostini invita formalmente a partecipare al Festival il prossimo anno.
"A capotavola di una società democratica può sedere solo la politica, la sola in condizioni di disciplinare il conflitto fra legittimi interessi in nome dell'interesse generale. La politica deve essere totalmente autonoma dai giornali": lanciando questa sua idea, Mauro dà occasione ad Agostini di introdurre la vicenda Veronica Lario - Silvio Berlusconi. Repubblica aveva pubblicato quaranta righe sulla partecipazione del premier alla festa di Casoria. L'indomani l'ex-moglie del presidente del Consiglio si rivolgeva all'Ansa (e non al suo giornale), dopo due giorni Berlusconi si faceva intervistare a Porta a Porta.
Questi i fatti e via alle domande: le contraddizioni del potere, le sue bugie sono un problema per i cittadini oppure no? Altro applauso. Perché il presidente del Consiglio è costretto a mentire ai suoi cittadini su questa vicenda? In qualunque paese si mettono insieme le contraddizioni e se ne chiede conto. Repubblica chiama Gianni Letta e comunica le dieci discrasie fra le dichiarazioni del premier e quelle dei protagonisti della vicenda. Il premier era al Cairo e Repubblica chiede quattro giorni, termine non rispettato.
Negli Stati Uniti, l'opinione pubblica cresce nella consapevolezza informata, continua Mauro. La macchina della Casa Bianca lavora per rispondere alle accuse quando queste legittimamente arrivano. Questo manca in Italia. I giornali europei hanno ripreso la battaglia di Repubblica con i loro strumenti, guadagnando a loro volta accuse da certa stampa italiana. Ma a un certo punto, si infervora Mauro, proprio in Italia si è capito che per fare la battaglia politica servono i giornali. E qui inizia la cronaca del settembre dell'anno scorso. Cambia il direttore de Il Giornale. Quello uscente se ne va con dispiacere, non rimpiangendo nulla, solo una battaglia gli è mancata: "rovistare nel letto dei direttori e degli editori degli altri giornali". E' un manifesto di programma giornalistico, editoriale. Il nuovo direttore de Il Giornale lo trova un letto da rovistare: denuncia di omosessualità Boffo presentando un foglio scritto nel linguaggio tipico dei servizi segreti dove Boffo sarebbe risultato "attenzionato come noto omosessuale". Può una procura, si chiede il direttore di Repubblica, al di là del degrado sintattico e verbale, scrivere una cosa del genere? Ma qualcuno, incappato in questa macchina, ha perduto il proprio lavoro: è la conseguenza di una non corretta informazione, che non lascia spazio ad alcuna riabilitazione. La menzogna diventa killeraggio umano e professionale. L' inchiesta, perché tale è, viene subito banalizzata con la solita metafora calcistica: " Il Giornale-Repubblica 1-1" è uno dei titoli di quei giorni.
A questo punto Agostini, all'ennesimo applauso, provoca Mauro: questo teatro è forse uno specchio distorto della realtà? Siamo forse tutti comunisti qui e solo qui? Perché la sinistra non ha fatto di questa inchiesta di Repubblica una questione politica di opposizione? Le ragioni sono culturali, risponde Mauro. Viviamo immersi in un senso comune dominante, cosa ben diversa dall'opinione pubblica. Il premier, uno dei migliori interpreti del senso comune del paese, anzi uno dei suoi maggiori fabbricanti, agisce su questo senso comune. Un esempio: la scelta di celebrare la Resistenza al fascismo il 25 aprile del 2009 con un discorso, riconosce Mauro, che raggiunse il massimo dei consensi e strategica mossa in un momento per lui estremamente delicato.
Agostini informa in tempo reale Mauro e la platea sullo stato del "dialogo" di questi giorni fra premier e presidente della Camera. Il Giornale "di famiglia del premier" è stato criticato da Fini, che si è sentito rispondere: "è in vendita. Compratelo tu". Non tutto è in vendita, ribatte Mauro. Soprattutto il coraggio e il dovere di informare, non solo in senso giornalistico.
Infine, gli interventi dal numeroso e, anche lui, appassionato pubblico. Il conflitto di interessi, che , mentre parliamo "opera, lavora, deforma...è la confisca della moderna agorà", ribatte Mauro, è una questione capitale. E' un dato permamente della "sazietà democratica", che non ha voluto stabilire le regole del gioco. Repubblica ne ha parlato senza sosta, e non ne ha fatto una campagna permanente perché il giornale è vivo, si fa ogni giorno, si scontra con la realtà deformandosi ed aprendosi a spazi e declinazioni inaspettate. Anche la contraddizione è viva e palpitante e va catturata subito, denunciata ogni volta e così Mauro risponde alla domanda che chiede perché Repubblica non abbia fatto del conflitto di interessi un'altra campagna permanente. A tale proposito, ricorda Berlusconi che in occasione dell'unica ed ultima apparizione del direttore di Repubblica a Porta a Porta (altre risate ed applausi), lo ha subito interrotto quando ha menzionato il conflitto di interessi con un "ma lei, è ancora lì con quella roba?" Quale migliore banalizzazione si poteva operare attraverso l'egemonia culturale? Quella "roba" è un elemento permanente e attivo di alterazione del libero gioco democratico, afferma Mauro. Un altro applauso separa le ultime tre domande dal pubblico, una sul caso Noemi che forse ha distratto la pubblica attenzione dalla supposta pista camorristica che non è stata approfondita, una sul perché la battaglia delle dieci domande non sia continuata e l'ultima, lunga e provocatoria che sottolineando il problema culturale italiano fatto di tante risorse intellettuali ma anche di una maggioranza politica che sembra contraddirle, chiede in sostanza quanto sia difficile essere italiani, fra l'amore per il calcio e l'inedia di fronte alla millesima inchiesta.
Mauro chiude rispondendo in modo cumulativo. C'è un grande pezzo di paese che chiede rappresentanza,al di là della maggioranza politica. Se tutta quella parte del paese potesse essere rappresentata, per lui non ci sarebbe più lavoro. Si tenta di rappresentarne una parte, una certa idea in cui tanta Italia si può riconoscere, repubblicana, una democrazia post-costituzionale in cui c'è un potere sovraordinato per una interpretazione della costituzione materiale da parte di questo potere, ed è una pratica quotidiana, questa. Se non puoi risolverla, costituzionalizza la mia anomalia. Resterai deformato per sempre ma a quel punto i confllitti finiscono, ne nascerà la nuova Repubblica, sembra dire il potere,ma "non si può cambiare la costituzione per adeguarla alla biografia di una persona", è la grande provocazione finale. Se un giornalista prima di scrivere un articolo sul premier deve pensare bene a ciò che scriverà perché potrà essere usato contro la sua persona, dov'è la libertà di stampa? Altra domanda che non solo non riceverà risposta, ma rischia (anche lei) di essere portata in tribunale (altro applauso e risate). E' quando si chiedeva Saviano. Non è la camorra che getta la vergogna sul paese, è chi denuncia che getta fango sul paese: è quanto afferma Berlusconi. Con queste citazioni Agostini ringrazia Mauro e il Festival e parlando a nome di tutti, sostiene pubblicamente Roberto Saviano.
Alla fine, Mauro si fa la domanda e si risponde: a cosa serve un giornale? Deve far dire alla persone : ho avuto degli strumenti di lettura, di intelligenza degli avvenimenti, per conoscere, per capire le vicende, per vedere e non solo guardare, per essere cittadino consapevole.
Un ultimo grande applauso accompagna il direttore di Repubblica fuori dal Pavone.
Quello che, però, merita l'applauso più forte, è l'affermazione che solo io ho potuto udire, ma che voglio scrivere qui. La silenziosa sconosciuta seduta al mio fianco a teatro se n'è andata con la frase più ottimista e piena di speranza : "E' proprio una brava persona". Che ho condiviso sorridendo e applaudendo, in silenzio. Ma con passione.
Lucia Settequattrini
Viaggio a zonzo nella storia della critica televisiva italiana e dintorni
Il 22 aprile si è tenuto all’hotel Brufani l'incontro con Nanni Delbecchi, autore della Coscienza di Mike, “una storia d’Italia dal punto di vista del totem di massa che è la tv”. Il libro parte, ovviamente, dall'esordio della tv italiana (il 1954) che vede nella tv (è Delbecchi a dirlo) “la dama di compagnia” e nella stampa “la regina” e arriva ai giorni nostri, in cui questo rapporto con i giornali è completamente invertito. La ragione per cui la televisione è riuscita ad operare questo ribaltamento probabilmente è da ricercarsi nell'operato dei suoi validissimi critici che - parafrasando Hemingway - hanno saputo (differentemente da quelli d’arte, teatrali, cinematografici e letterari) “raccontare cose da mille dollari con parole da un dollaro e non cose da un dollaro con parole da mille”. Dal medium più “basso” è infatti scaturita la critica non solo più “alta”, ma anche più vitale e frizzante: Campanile, Del Buono, Placido, Saviane, Guareschi.
La critica televisiva ha quindi sicuramente avuto da sempre il merito di non essere snob, di essere – come ha osservato Francesco Specchia (critico televisivo di Libero) – al servizio di quelli che al cinema non guardavano magari La Dolce Vita, Rocco e i suoi fratelli e L’avventura ma preferivano andare a vedere i non meno importanti film di Monicelli, di Risi e di Totò.
Tuttavia, oggi, una malintesa inclinazione popolare ha portato questo genere giornalistico (e in una certa misura anche letterario) a perdere completamente mordente; dice a tal proposito Giorgio Simonelli (docente di giornalismo televisivo): “bisogna impedire a quella che oggi è la maggior parte degli addetti ai lavori di dire questa frase: ‘tu non puoi dire che questo programma fa schifo, perché facendolo, offendi i sei milioni di spettatori che lo guardano’. Per quale motivo, dicendo che la Pupa e il Secchione è una schifezza offenderei il pubblico? Offendo, semmai, gli autori di quella trasmissione”. Prosegue poi Simonelli: “bisogna liberarsi della schiavitù dell’auditel, gli autori televisivi tornino a scrivere trasmissioni che a loro piacerebbe vedere realizzate e la smettano di creare format che assecondano i dettami delle curve di ascolto”; parole sagge.
Jacopo Giombolini
giovedì 22 aprile 2010
Lo sfogo di Tiziana Ferrario contro il direttore del TG1 durante l'incontro “Donne, media e potere”
Qui potete vedere il video da me realizzato dell'episodio.
Patrizia Cantelmo
mercoledì 21 aprile 2010
Journalism Lab. "L'ho letto sul telefonino: il futuro prossimo dell'informazione mobile"
Due gli "infiltrati" invitati: il primo, Raffaele Mastrolonardo, porta la sua peculiare ma interessante esperienza quale cavia di un esperimento che lo ha visto configurare la propria dieta mediatica unicamente a base di sei testate giornalistiche fruite tramite il suo I-phone 3GS. Nello specifico: La Stampa, Corriere della Sera, la Repubblica, Le Monde, The Guardian e New York Times, tutte rigorosamente apps del "melafonino". Mastrolonardo, che di mestiere vende contenuti a media come Sky.it e il Secolo XIX, ha tentato per una settimana di seguire le regole del "gioco": niente giornali, né riviste, né tv, né radio. Il Web? Un compromesso. Niente siti, Rss reader né blog. Solo la lettura di e-mail in arrivo e Facebook, tutto rigorosamente tramite il telefonino. I risultati? Sorprendente, ha continuato Mastrolonardo, la velocità di adattamento della prima mezza giornata di esperimento. Aiuta moltissimo il "tocco" con cui si usa il device, che stabilisce intimità con l'utente. Nonostante le apps non si discostino molto l'una dall'altra, per un tipo di utenza come questo il livello è stato accettabile.
La prima giornata è scorsa veloce ed "esaltante" per il fatto di cronaca che la ha contrassegnata: il deragliamento del treno a Merano.
Le dolenti note: iniziano dal secondo giorno. La mancanza di link esterni (tranne parzialmente per il New York Times) hanno scatenato una "sindrome da claustrofobia informativa". Anche internamente manca quella correlazione che porta l'utente a quella che gli anglosassoni chiamano serendipity, scoprire qualcosa che non si era cercato, circostanza tipica della rete.
Terzo giorno: è il giorno del terremoto in Cina, notizia che scalza il deragliamento di due giorni prima, anche per motivi di spazio. Mastrolonardo conclude, quindi, che alla fine la "lettura estensiva di news su I-phone è una passo indietro": mancano le "valvole di sfogo" che altri supporti forniscono. Di bello, invece, ci sono la funzionalità "My news" di Repubblica (individua arogomenti di cui si può essere avvertiti anche a app spenta), la leggibilità del New York Times , per font e sua dimensione e la navigabilità del Guardian. Le Monde, inoltre, pubblica alcuni commenti dei lettori.
Ed è qui che la discussione sta per entrare nel vivo, dopo la curiosità dell'esperimento comunque illuminante: l'unica app gratuita è quella de La Stampa, mentre le altre due italiane richiedono 4 euro e 99 centesimi al mese ciascuna.
News come merci? E' la domanda che ha lanciato sul suo blog il secondo "infiltrato", Gianluca Diegoli di Minimarket.it prima di partecipare a questa tavola rotonda di oggi al Festival. La news difficilmente ha un prezzo, dice. Le barriere alla sua diffusione in rete sono praticamente pari a zero e rimane difficile stabilire chi è disposto a pagare per una notizia quando può averne una "free" : le barriere diventano tecnologiche in quanto ostacolano i micropagamenti, un paywall che impedisce di remunerare il lavoro dietro la notizia, soprattutto quando costa pochissimo. Come avvenne per la musica e poi per il cinema in rete, muri potenti rischiano in questo caso di far ignorare il contenuto e di consegnare, continua Diegoli, il business a chi i muri li produce. Per di più, riallacciandosi a Mastrolonardo, quando si ha la sensazione costrittiva di qualcosa scritto per un'altra piattaforma, la disposizione a pagare diminuisce ulteriormente.
E' a questo punto, ed energicamente, che interviene Luca Tremolada, de Il Sole 24 ore. " Le notizie non sono merce", inizia perentoriamente, fornendo subito dati coinvolgenti: in un mese su Internet passiamo 52 minuti a leggere notizie (cosa che corrisponde più o meno a due titoli di una home page e due servizi), 7 ore sui social media, 3 sui giornali on line, una e mezzo sul porno, il resto sull'informazione. Ad effetto, Tremolada chiede alla platea: "Cosa pago?". Probabilmente il background, le chiavi di lettura necessarie a chi legge per capire cosa sta accadendo.
Un esempio molto diverso da quello nazionale è la redazione de El Paìs, esempio di professionisti multitasking i quali lavorano le news per tutte le piattaforme: la lanciano per il mobile, poi online, per la carta stampata e per la radio. Il metodo è veloce è completo, e rende l'editore onnipresente, ma la qualità?
E' la volta, infine, di un'altra "outsider": Natascia Edera, da quasi dieci anni in Vodafone e più recentemente anche lei blogger con un piccolo progetto editoriale. La sua esperienza dice che in generale si percepisce una differenza fra notizia e informazione all'interno della sua community, laddove la seconda ha un valore personale e viaggia parallela.
Rimane il quesito del valore economico dell'informazione: dopo alcuni interventi del pubblico in sala, la conclusione, intelligente come il resto dell'evento, è che questo valore risiede nel tipo di informazione che risolve anche il problema. Content is king ma anche, o meglio, nell'informazione mobile, chiude Massimo Cavazzini, context is king.
Lucia Settequattrini
Panel Discussion: " Le sfide del cambiamento: quale futuro per i media, il lavoro, il welfare di settore"
La crisi c'è, davvero: Anselmi parla del 22 per cento di crollo della pubblicità in uno scenario dove l'innovazione tecnologica è sia fattore scatenante che parziale rimedio alla crisi stessa.
Due sono i punti fermi, condivisi da tutti i partecipanti: autorevolezza e credibilità del giornalismo.
A questo punto, però, qual'è e quale dovrebbe essere il ruolo delle forze politiche e delle istituzioni? Come gestire la crisi mantenendo l'autonomia dell'informazione? Il nodo sta proprio nella corretta gestione del supporto da parte dello stato, che, secondo
Andrea Camporese, presidente INPGI, non può essere chiesto in toto, bensì deve essere distribuito in modo efficace e non episodico.
A tale proposito, Carlo Malinconico, presidente FIEG, precisa che proprio domani, 22 aprile, sottoporrà emblematicamente e non solo alla Camera il rapporto della stampa nell'ultimo triennio; la pluralità, in ambito di quella che è stata invocata come "dieta mediatica", non può essere garantita laddove, recita il rapporto, la fascia di popolazione compresa tra i 25 e i 32 anni non ha praticamente contatto con la carta stampata. Ed è proprio all'interno della stampa che non si è compiuta la grande rivoluzione tecnologica degli ultimi dieci anni, ha concluso Camporese, settore, quello della carta stampata, dove fondamentale è il contratto, problematico non di per sé, ma nella sua evoluzione.
La discussion è terminata con la necessità di concentrarsi sul sostegno al lavoro non dipendente e sull'importanza della condivisione delle responsabilità per le future strategie dell'informazione.
Lucia Settequattrini
martedì 20 aprile 2010
I media deformano il reale e la verità scompare
A prendere per buoni i tg e giornali,l’impressione è quella di un paese dominato dal dramma.
Crisi economica,violenza,povertà,collusioni con la mafia,sexgate risultano come spade di damocle sull’
emotività degli italiani più che in passato e i media sembrano agire come una gigantesca lente che
deforma il reale e lo carica di ansie.
La verità è che siamo al doping dell’informazione.
Al punto che la percezione della crisi da parte del pubblico si fonda stabilmente sui racconti del male
più che sulle prove dell’esperienza quotidiana.
E’ il primo passo della paura e del ripiegamento nel privato.
E qui s’impone una domanda per i media italiani: la drammatizzazione dello scenario sociale e,in particolare il ricorso all’alibi degli stranieri,
è colpa dei fatti o della loro rappresentazione?
Ma agire costantemente sull’onda dell’emotività e dell’emergenza espone a qualche rischio:l’infiammazione comunicativa può trasformarsi in un boomerang,che apre le porte alla desensibilizzazione e alla passività
psicologica dei cittadini con il risultato di lasciare sul terreno una società più disincantata,ma anche più cinica.
Vi ricordo in merito l’appuntamento alle ore 15.00 presso l’hotel Brufani mercoledi 21 aprile la panel discussion “VEDO E NON VEDO?SPOSTARE IL LIMITE PIU’ IN LA’”
Quando è corretto mostrare fotografie o filmati,che riportano si una realtà,ma possono essere anche molto duri?Esiste e qual è la giusta distanza tra giornalismo e realtà?
Parteciperanno alla discussione Gianfranco Botta e Silvio Giulietti del Tg3,Lorenzo Del Boca Presidente dell’ordine dei giornalisti,Antonio Polito direttore del Riformista,Pier Paolo Cito fotografo Associated Press ed infine Roberto Chinzari.
Stefania Vietri
lunedì 19 aprile 2010
Cento passi da percorrere insieme
Un'iniziativa che dovrebbe essere particolarmente cara a noi amanti della radio: un uomo che con la sua radio libera “radio aut” lottava contro l'oppressione di un potere illegale che sembrava invincibile. Si riparte insieme con i miei colleghi “radiofonici in erba” da un portale internet, a commentare un festival del giornalismo che quest'anno più di altri si deve confrontare con i nuovi media; si riparte dal premio Pulitzer assegnato a un giornale on line e per giunta non profit, Pro Publica di Paul Steiger, anch'egli presente qui a Perugia. Tutto questo sembra davvero ammonirci che gli spazi per la libertà di espressione, come lo stesso Impastato ci ha insegnato - con mezzi ancora più difficili da praticare - ci sono: sta a noi con un po' di volontà farne buon uso. La libertà non si reclama, ma si esercita. Buon festival a tutti!
Patrizia Cantelmo
Quelli che il Festival....
Tutti insieme appassionatamente: grandi innovazioni tecnologiche al servizio dell'informazione e grandi cali di vendite e ascolti, grandi opportunità di condivisione e grande bisogno di qualità di contenuti. Nel Festival quest'anno grandi anche gli ospiti: politici, scrittori, studiosi, attivisti, registi e, naturalmente, giornalisti e allievi del Master in Conduttore Radiofonico e Media Digitali, subito alle prese con "Le sfide del cambiamento: quale futuro per i media, il lavoro, il welfare di settore", mercoledì 21 aprile, così, per cominciare (anche qui alla grande).
Per quanto riguarda la sottoscritta, il festival comincia alle 8.30 di mercoledì 21 aprile, ora in cui inizia la diretta dal Festival di una delle rassegne stampa più irriverenti e disincantate della radio : "Lateral", condotta da Luca Bottura per Radio Capital, seguita da un altro grande appuntamento: "Radio anch'io".
Benvenuti, quindi, da quelli che scrivono, vedono, pensano, ma soprattutto, ascoltano la radio.
Lucia Settequattrini